La qualificazione dello straining

Lo Straining (derivante dal verbo “to strain”, stringere, distorcere, mettere sotto pressione) qualifica una situazione di stress forzato su posto di lavoro che trae origine da un’azione ostile e stressante (ad esempio un’aggressione verbale posta in essere da un dipendente nei confronti di un collega) posta in essere dall’aggressore (lo strainer) e diretta volontariamente contro il lavoratore danneggiato. Per la qualificazione della fattispecie è fondamentale la natura intenzionale del comportamento lesivo, volta a provocare un peggioramento della condizione lavorativa delle persone coinvolte.

È bene precisare quanto prima che lo Straining si differenzia dal Mobbing per il modo in cui è perpetrata l’azione vessatoria.

Infatti, per configurare di Mobbing (verticale o orizzontale che sia) sono necessarie una serie di condotte (da provare) ostili, continue e frequenti nel tempo, ed infine si deve riscontrare un conseguente danno alla salute. Nello Straining, invece, viene meno il carattere della continuità nel tempo delle azioni vessatorie, quindi basterà una sola azione vessatoria per configurarlo, purché i suoi effetti siano duraturi nel tempo.

Dunque, lo Straining si configura come una condizione psicologica che si pone a metà strada fra il Mobbing ed il semplice stress occupazionale.

La corte d’appello di Brescia, a tal riguardo, si è pronunciata definendo come Straining il trattamento ostile e svilente adoperato dal primario del reparto (atteggiamento ingiurioso tenuto nei confronti della collega, causante un danno biologico del 10%, provato con CTU), cui è stata costretta a subire una neurologa dipendente dell’Azienda Ospedaliera di Brescia. In questo caso la corte d’appello, oltre ad aver confermato il risarcimento riconosciuto, modifica la qualificazione del trattamento subito dalla neurologa (in primo grado era stato definito come “mobbing”), definendolo, per l’appunto, come “Straining”.

La suddetta decisione, successivamente, è stata confermata in corte di Cassazione, con sent. n.3291 del 19 febbraio 2016. La Suprema Corte, in aggiunta, ha specificato che ciò che conta per la qualificazione dello Straining è il compimento di una condotta contraria all’art. 2087 c.c., specificando,comunque, che non ha rilievo giuridico (ai fini di una eventuale ultrapetizione) l’originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing (e non Straining).

A prova della bontà della qualificazione dello “Straining” nel caso di specie, è bene precisare che per qualificare il mobbing, invece, i comportamenti persecutori del mobber devono essere ripetuti in un arco temporale medio – lungo, e devono essere provati: a riguardo, la giurisprudenza richiede una durata di almeno sei mesi, ed una ripetizione degli atti persecutori di almeno due volte al mese, oltre, ovviamente, al fatto che si deve dimostrare il nesso di causalità fra comportamenti reiterati e danno subito.

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